Alla gentile attenzione dell’Assessore alla Regione Lombardia Alessandra Locatelli
Buongiorno Assessore, desidero sottoporle una problematica legata a un tema che certo le suonerà noto avendo già avuto a che fare con il SAVI (Servizio di Aiuto alla Vita Indipendente) delle persone con disabilità, in veste di Assessore comunale.
Nel caso in questione il diritto alla vita indipendente ha a che fare con la misura B1, l’intervento economico previsto dalla nostra regione a favore delle persone classificate come gravissime.
In fase di compilazione della domanda, come l’anno scorso una mia amica ed io ci siamo scontrate con l’obbligo di dover dichiarare forzatamente l’esistenza di un caregiver familiare, pena l’impossibilità di presentare la domanda.
Io, per sfinimento, mi sono assoggettata pur di portare a termine l’iter burocratico, ma mettendo in chiaro che avrei messo in discussione la faccenda in ambito regionale, mentre la mia amica ha ottenuto dopo un lungo giro di estenuanti telefonate, anche da parte della Ledha Como, di poter presentare la domanda senza indicare i dati di un caregiver familiare, così come è prassi normale in altre ASST lombarde.
Occorre precisare che le condizioni di vita mie e della mia amica sono diverse, infatti lei è sposata e si avvale per l’assistenza sia del marito, assunto per 40 ore settimanali, che di una seconda assistente. Da lei si pretendeva che indicasse il nome del marito. Ma non tutti hanno un caregiver familiare, né lo vorrebbero, io per esempio mi avvalgo unicamente di personale assunto.
Da me è stato preteso che indicassi i dati della mia assistente personale convivente. Sia io che la mia amica abbiamo insistito che quella di indicare il caregiver familiare (ma poi perché utilizzare un nome in inglese visto che esiste il corrispettivo italiano assistente?) deve essere un’opzione, non un obbligo se sussistono altre condizioni.
Poter assumere e dirigere il personale che svolge per noi quello che noi non siamo in grado di fare è indice della capacità di autodeterminazione e quindi di fare una vita indipendente. Ma la risposta dell’incaricata al servizio è stata che siccome abbiamo bisogno di aiuto per fare tutto, non siamo indipendenti, e che l’aiuto che ci viene dato ci permette di essere un po’ autonome, ma non indipendenti. Poi ha riconosciuto che, certo, siamo in grado di ragionare, autodeterminarci.. (bontà sua!), ma a questo punto vale la pena di rispolverare un po’ di quei concetti che credevamo ormai assordati: per prima cosa è proprio perché siamo in grado di ragionare, di scegliere, di autodeterminarci che, con appropriati strumenti, possiamo essere indipendenti. Sentirsi indipendenti è condizione vitale perché permette a chiunque di godere di quel benessere psicofisico che deriva dal fatto di sentirsi persone, non oggetti da accudire o trattare come si crede. Del resto, come ci ha fatto notare la nostra interlocutrice, tutti abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri, anzi la nostra società è costruita proprio sull’essere interdipendenti: per esempio la gran parte di noi compra il pane dal panettiere o al supermercato e nessuno si sogna di attribuirgli l’etichetta di persona dipendente, questo non vieta a chi può e lo desidera di farsi il pane in casa. Ed ecco un altro punto da tenere a mente: fare vita indipendente significa scegliere i mezzi ritenuti necessari, e disporne, per raggiungere il fine prescelto. È qualcosa di diverso dall’essere autonomi, perché l’autonomia permette di svolgere alcuni o molti compiti, ma non necessariamente di svolgerli in modo indipendente, cioè liberamente. Trent’anni di lotte del movimento italiano per ottenere il diritto, purtroppo ancora troppo spesso solo sulla carta, di vivere una vita indipendente sembrano svanire nel nulla di fronte a certe affermazioni: pretendere che una persona con disabilità indichi forzatamente l’esistenza di un caregiver familiare è come negare che la sua parola abbia un qualche valore, che le sue capacità di autodeterminarsi non esistano, che non possa autorappresentarsi, che qualcun altro debba garantire la veridicità delle sue dichiarazioni, come se quel qualcuno per il solo fatto di non avere una dichiarata disabilità sia più credibile della persona direttamente interessata. Quest’ultimo terzo aspetto è altrettanto fondante trattando di vita indipendente: è la persona interessata che deve esprimersi, anche servendosi di intermediari da lei indicati, e sapersi responsabile delle sue scelte. Nel caso mio e della mia amica non è bastato presentare la documentazione dell’avvenuta assunzione del personale utilizzato, dei contributi regolarmente pagati e del nostro soddisfacente stile di vita. A scanso di equivoci: mentre credo sia ormai chiaro che nel mio caso il mezzo principale per assicurarmi la mia vita indipendente è un numero sufficiente di assistenti personali da me scelti e formati, nel caso della mia amica c’è da fare un po’ d’ordine nelle due funzioni che assume la figura del marito: nella sua veste di caregiver familiare credo abbia diritto a tutto quanto previsto per questa figura, mentre nella sua funzione di personale assunto è necessario fornire alla persona con disabilità interessata tutti i mezzi necessari per retribuirla. I due aspetti vanno sommati tra loro e non sovrapposti come si usa di questi tempi. Sta poi al loro rapporto di coppia saper gestire questa, secondo me, difficile compenetrazione. Concludo offrendole la disponibilità ad approfondire questo e i numerosi altri aspetti legati al tema della vita indipendente anche nella speranza di veder realizzata, attraverso il suo mandato, la nostra aspettativa di vedere approvato un testo di legge organico sulla vita indipendente che superi la frammentazione di diverse misure spesso discriminatorie e che metta come principi cardine l’assistenza personale, gli ausili, e il coordinamento tra i diversi assessorati.
Un cordiale saluto anche a nome del Comitato lombardo per la Vita Indipendente delle persone con disabilità.
Ida Sala