Libertà e responsabilità nell’assistenza personale

Circa il 6-7% della popolazione italiana ha delle disabilità più o meno gravi. Di queste una parte (circa 500.000 persone secondo una stima prudenziale) è completamente dipendente e senza una adeguata assistenza è destinata a non sopravvivere.

Grandi speranze vengono riposte nella ricerca scientifica, che sicuramente negli anni a venire risolverà molti problemi, rimane tuttavia forte l’esigenza di dare una risposta adeguata anche per l’oggi e per tutte le situazioni che in futuro non dovessero venire risolte grazie alle scoperte nel campo medico.

 

L’oggi

A parte una piccolissima parte di queste persone, di cui si dirà in seguito, oggi la sopravvivenza viene “garantita” principalmente da tre strumenti:

  • la famiglia, per chi ne ha una;
  • varie forme di assistenza organizzate dagli enti locali o dalle asl;
  • l’accoglienza in strutture (istituti, case di riposo, case famiglia, comunità).

 

Strumento 1 – la famiglia

Nel caso di vita in famiglia, di solito l’attività di “cura” è riservata a una donna: madre, sorella, moglie. Le attenzioni che il sistema di garanzie sociali riserva a questi parenti-assistenti è minimo. Non sembra esagerato parlare di ricatto: il ricatto dell’affetto, dell’amore che esse provano nei confronti del congiunto disabile, e che le porta letteralmente a dedicare la vita ad alleviarne le difficoltà, magari con felicità, ma anche con la consapevolezza della mancanza di alternative.

Infatti non sono previsti se non in minima parte servizi di “sollievo” sostitutivi e ovviamente non si parla di orari, di garanzie economiche o contrattuali, di assicurazione in caso di infortuni o di diritto a una pensione dignitosa.

L’attività di “cura” non viene considerata un vero lavoro, e non le viene riconosciuta alcuna retribuzione.

Insomma si può ben parlare di una sorta di schiavitù legalizzata, certo autoindotta a causa del ricatto di cui ho detto, ma non per questo meno pesante.

Basti pensare al problema da più parti sollevato del “dopo di noi”, cioè della sorte della persona con disabilità i cui famigliari (soprattutto genitori) invecchino o non siano più in grado di provvedere all’assistenza necessaria.

Ci sono casi più fortunati, di persone con disabilità che hanno famiglie numerose che possono distribuire il carico di lavoro su più persone, ma sono una piccola minoranza destinata a ridursi sempre di più in una società in cui in generale le famiglie sono sempre più piccole.

Inoltre nel rapporto di dipendenza rispetto ai propri famigliari che la persona con disabilità sperimenta costantemente, spesso si innesta una dipendenza “di ritorno” che è anche stata studiata a livello psicologico e che complica ulteriormente la vita di queste persone e dei loro rapporti interpersonali, quando non scivola verso patologie psichiatriche, che a volte arrivano alla stampa e alla comunicazione di massa con l’occasione dell’ennesimo omicidio/suicidio o di altre forme di protesta disperata.

Infine non è accettabile che lo Stato, “scarichi” sulle famiglie l’onere completo di questo servizio poiché viene meno a un preciso dovere scritto in Costituzione: articolo 3, dove compito della Repubblica è “rimuovere gli ostacoli”.

 

Strumento 2 – l’assistenza erogata dagli enti

L’assistenza fornita da enti locali ed asl, di solito viene chiamata “domiciliare”, è progettata per un utilizzo “efficiente” degli assistenti, ed è organizzata in modo da garantire gli operatori, che sono fortemente protetti da un punto di vista contrattuale.

La vita di una persona con disabilità assistita da un sistema del genere somiglia molto ad una detenzione, e nei casi migliori ad una semilibertà.

Le persone con disabilità in questi casi, infatti, non possono decidere a che ora alzarsi o coricarsi, a che ora mangiare, spesso neppure cosa mangiare, non possono uscire quando ne hanno desiderio o necessità, ma solo quando il servizio è disponibile, e possono invitare amici nella loro casa soltanto se c’è compatibilità degli orari oppure sono costrette ad utilizzare gli amici come assistenti, in un rapporto di limitata libertà reciproca.

Gli utenti del servizio non possono intervenire sul mansionario degli assistenti, e neppure nel loro piano di formazione professionale. Quando un operatore ha rapporti difficili con uno dei suoi assistiti, è previsto dal contratto che possa chiudere il rapporto e passare ad altro. La procedura si chiama “burn out” (bruciato).

Ovviamente il contrario non è previsto, e se chi ha necessità di assistenza rifiuta l’operatore, tranne nei casi di rilievi estremamente gravi non ha diritto alla sostituzione.

Inoltre è implicito che in nessun momento della procedura di attivazione di forme di assistenza domiciliare, l’assistito possa scegliere il suo assistente, neppure per le attività di nursing più intime e delicate.

Infine in questo tipo di servizi assistenziali il turnover degli operatori è molto frequente, e la persona con disabilità si vede molto spesso capitare in casa persone nuove, cui dover ogni volta insegnare tutto, e di cui dover ogni volta sperare in termini di velocità e di disponibilità ad imparare.

 

Strumento 3 – l’accoglienza o la residenzialità

Terzo strumento è l’accoglienza in una struttura. Questa viene vista come una soluzione obbligata nei casi di persone con gravi disabilità e senza altri supporti.

Il fatto che non siano offerte alternative e che quindi la “scelta” non sia tale, consente di affermare che non si tratta di accoglienza, bensì di internamento.

E questo termine è valido sia per le soluzioni più “dure” come gli istituti e le case di riposo, che per quelle apparentemente più “moderne” come le comunità e le case famiglia.

Infatti, quando non si può scegliere con chi andare ad abitare, non si possono scegliere orari e stile di vita, e ancora una volta non si può scegliere le forme di assistenza di cui avvalersi, si può senza dubbio legittimamente parlare di prigionia, e di prigionia aggravata talvolta dalla fortissima pressione psicologica dovuta alla coabitazione coatta con persone che per condizione psicofisica o semplicemente per l’età avanzata sono, per usare un eufemismo, dei compagni di cella poco gradevoli.

Si badi bene, non voglio affermare che per definizione anche le strutture “leggere” siano automaticamente prigioni per il solo fatto di esistere, di essere strutture, appunto. So bene che molte persone con disabilità desiderano realmente vivere in comunità o in casa famiglia.

Quel che però deve essere garantito è che quella scelta sia tale, che sia stata fatta liberamente avendo a disposizione anche altre opzioni, e che le altre opzioni siano vere, rispettose, vantaggiose, perché altrimenti saremmo alla scelta fra la proverbiale brace e l’altrettanto proverbiale padella.

 

Il diritto alla libertà

Tutto ciò, è importante ricordarlo, in presenza di una norma costituzionale che afferma che non si può togliere la libertà a una persona se non sulla base di particolari condizioni e per un bene di ordine superiore (sentenze penali, etc.). – la libertà individuale è un diritto inviolabile –

A queste obiezioni avanzate dalle persone con disabilità e da alcune delle loro organizzazioni, negli anni scorsi si è risposto che è appunto per un bene di ordine superiore (il diritto alla vita) che si doveva agire così, in altri termini per l’impossibilità pratica di fare altrimenti.

Quindi garantire la sopravvivenza di queste persone implicava da parte loro ad una rinuncia ad alcune libertà poiché per lo Stato garantire altre forme di assistenza più rispettose di queste libertà sarebbe risultato troppo dispendioso e quindi insostenibile per il bilancio pubblico, o semplicemente impossibile da organizzare.

Cercherò di dimostrare che questa risposta è falsa. A partire dall’uso dei termini.

Una persona con gravi disabilità che ha costante necessità di assistenza è completamente dipendente da altri. Vediamo il significato che il vocabolario Devoto Oli dà della parola: “dipendenza: rapporto di subordinazione osservato in vari ambiti, in ossequio alla tradizione, alle circostanze o a particolari esigenze organizzative”.

Alla tradizione, alle circostanze o a particolari esigenze organizzative. Sono tre elementi, quelli che definisco i tre pilastri della dipendenza.

E’ una definizione precisa. I rifiuti che vengono opposti alle persone con disabilità che chiedono di poter esercitare le loro libertà si ritrovano tutti in questi tre argomenti: la tradizione (si è sempre fatto così, perché cambiare); le circostanze (la situazione di disabilità è oggettiva, occorre prenderne atto e rassegnarsi); le particolari esigenze organizzative (i servizi devono essere efficienti e non possono certo star dietro le fisime di tutti, ci si deve adattare).

Dopo aver analizzato il termine “dipendenza” andiamo ora a vedere il significato di “indipendenza”. Sempre dal vocabolario Devoto Oli: “Indipendente: esente da rapporti che implichino il riconoscimento o l’accettazione di motivi più o meno ufficiali di subordinazione”.

E’ perfetto. L’indipendenza non significa fare a meno degli altri o vivere da soli o compiere scelte di vita diverse da quelle delle persone “normali”, significa solo non essere subordinati dove non serve, significa non essere subordinati perché così si viene più facilmente gestiti in nome dei tre pilastri della dipendenza, significa in sostanza avere gli stessi diritti e doveri delle persone che non hanno disabilità.

E significa, comprovato dai fatti, come descrivo più sotto, che i tre pilastri che giustificavano la negazione di questo tipo di riforma non hanno valore. Che non ci sono più alibi e che negare oggi questo tipo di soluzioni nasconde altri fini.

 

L’inizio di un nuovo percorso

Alla fine degli anni ’60, a Berkeley, in California, un gruppo di persone con gravi disabilità frequentava l’università. Erano tutte persone con necessità di assistenza e la soluzione pratica escogitata all’epoca per garantirgli questi servizi consisteva nell’alloggiare queste persone in un’ala dell’ospedale locale, con tutti i limiti di regole e di orari che questo comportava.

Erano anni di forti fermenti intellettuali, e specialmente nel campus universitario circolavano molte idee nuove e nuovi concetti che oggi si potrebbero definire “liberal”. Erano gli anni delle lotte per i diritti civili delle donne, dei neri, degli omosessuali.

Proprio da questi movimenti vennero mutuati alcuni principi e gli studenti con disabilità maturarono la decisione di cercare nuove soluzioni ai loro problemi. Essi convinsero gli amministratori e i politici locali che erano in grado di organizzare da soli l’assistenza di cui necessitavano.

Con lo stesso denaro che veniva speso per la loro semi istituzionalizzazione sarebbero riusciti a procurarsi degli assistenti, addestrarli secondo le loro esigenze contrattando con loro direttamente e singolarmente orari e mansioni. E la cosa funzionò. E funzionò talmente bene che la voce si sparse velocemente in tutto il Paese.

Nel giro di pochi anni le iniziative si moltiplicarono, e ben presto sorsero circa 200 gruppi organizzati, diffusi in tutti gli USA. La massa critica provocò l’attenzione del governo federale, che stanziò dei fondi ad hoc. Vennero avviati i programmi di assistenza personale autogestita e dovunque il sistema funzionò.

Molte persone con gravi disabilità avevano conquistato una libertà prima neppure immaginabile, e il tutto con un rapporto qualità/prezzo molto alto dovuto al fatto che queste persone erano estremamente motivate ad utilizzare al meglio i fondi che venivano messi a loro disposizione, poiché questo significava per loro una vita migliore.

A Berkeley quelli studenti posero le basi concettuali e organizzative di un movimento che oggi è diffuso in tutti i continenti. Lo chiamarono “independent living”.

Oggi con una veloce ricerca su internet utilizzando un motore di ricerca fra i più usati, cioè Google, e usando come chiave di ricerca “independent living” si ottiene come risposta un elenco di 773.000 pagine, usando lo spagnolo “vida independiente” si trovano 10.600 pagine, e usando l’italiano “vita indipendente” si trovano 6.220 pagine.

Lentamente, faticosamente, ovunque si riesca a ottenere di poterlo sperimentare, pur con piccoli adattamenti rispetto alle diverse culture, c’è la dimostrazione che il sistema funziona. In particolare sono diversi anni che in Europa alcuni Stati hanno avviato dei programmi di “independent living”: Svezia, Gran Bretagna, Irlanda, Germania, Olanda, recentemente la Spagna, e altri seguiranno. Con notevoli differenze in termini di accesso a queste soluzioni in base al reddito e ad altre caratteristiche personali e/o famigliari.

 

Anche in Italia

In Italia il movimento per la vita indipendente è stato costituito nel 1989 e dopo 10 anni di lavoro il primo importante risultato in campo nazionale, dopo alcune esperienze regionali e locali, è stata l’approvazione della legge 162/98 che fra le altre cose sancisce il “diritto ad una vita indipendente” mediante progetti personalizzati finanziati dallo Stato e gestiti in modo indiretto (che nel linguaggio burocratese e burocratocentrico sta a indicare che i fondi non vengono gestiti dalle istituzioni bensì dai singoli cittadini che utilizzano questo strumento).

Con i pochi fondi stanziati inizialmente e sperimentalmente su questi progetti, per altro mescolati con altri di stampo più tradizionale (150 miliardi in tre anni) si sono avviate alcune esperienze e anche nel nostro Paese – ma non c’era motivo di dubitarne – il sistema funziona, e garantisce alle persone che sono riuscite a farsi assegnare quei fondi, una qualità di vita molto maggiore.

Non solo, fornisce anche un numero di ore di assistenza maggiore rispetto a quelle fornite dagli enti, a parità di denaro impiegato, poiché un’ora di assistenza pagata con un contratto di lavoro individuale (ad esempio con un contratto di tipo colf) costa poco più della metà di un’ora fornita da una cooperativa di assistenza in convenzione con il comune o con la asl.

Per di più con contratti personalizzati in termini di orari e di mansionari, discussi direttamente fra le parti, che così arrivano ad un ottimale e “normale” rapporto di interdipendenza fra chi utilizza delle prestazioni lavorative e chi le fornisce con la piena dignità di un lavoro retribuito e con le coperture previdenziali e assicurative adeguate.

Oggi i fondi della legge 162 sono confluiti nel gran calderone del fondo sociale unico che lo Stato assegna alle Regioni e alle Province autonome. Questo fatto, il fatto cioè che i fondi non sono più stanziati specificamente ha prodotto il risultato per cui dove si erano già avviate esperienze di progetti personalizzati, queste sono stati mantenute e in alcuni casi sono state perfino aumentate, come ad esempio nel Friuli Venezia Giulia, mentre dove nulla è stato fatto è molto più difficile che qualcosa si muova ora.

Inoltre la dichiarazione programmatica delineata dal Governo durante la conferenza sulle politiche dell’handicap svoltasi a Bari il 15 e 16 febbraio del 2003 ha messo in primo piano quale soggetto “forte” da valorizzare e sostenere la famiglia. Proprio quella famiglia di cui ho già detto.

E’ necessario dirlo chiaro, occorre raccogliere la sfida e dire che se il soggetto forte è la famiglia allora Vita indipendente serve anche alla famiglia poiché significa libertà NELLA famiglia, libertà DELLA famiglia, libertà DALLA famiglia.

Libertà NELLA famiglia perché con un progetto di vita indipendente la persona con disabilità non è obbligata alla dipendenza costante di uno o più famigliari e può organizzarsi la vita in qualche misura prescindendo dalla presenza costante di queste persone. Libertà DELLA famiglia perché in questo modo anche i famigliari sono più liberi di vivere la loro vita, di compiere le loro scelte e di non essere costretti alla professione coatta e non retribuita di assistenti vita natural durante. Libertà DALLA famiglia perché non è né sano né naturale che un figlio o una figlia sia costretto/a a vivere con la famiglia di origine anche dopo aver superato di molto la maggiore età e non possa progettare la sua vita al di fuori di questo nucleo.

Se queste condizioni non si realizzano la famiglia rischia di diventare patologica e diventa in ogni caso la famiglia discarica sociale. Una lettura purtroppo realistica della situazione infatti offre un’interpretazione obbligata e davvero poco confortante delle affermazioni fatte dai vari ministri e sottosegretari riguardo la condizione delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Dove un ministro dice che “Le persone con disabilità in famiglia vivono meglio” nelle condizioni date non si può fare a meno di pensare che la frase significhi in realtà: “I figli vi sono venuti male, e allora teneteveli”.

Questa è la realtà, ed è dimostrata dal libro bianco sul welfare pubblicato dal ministero del lavoro e delle politiche sociali, dove si legge che l’Italia ogni anno spende per l’assistenza, compreso il sostegno alla tanto decantata famiglia, meno di un terzo rispetto alla media europea.

 

Quel che accade e quel che dovrebbe accadere

La lotta per far affermare questi principi è ancora in corso e ci sono vari tentativi di far saltare ogni ulteriore prova della bontà di questo sistema. Tanto per fare un esempio a Roma la delibera che istituisce il SAVI (Servizio di Aiuto per la Vita Indipendente), è arrivata in grave ritardo per la forte opposizione di Rifondazione Comunista, che è alleata con le cooperative che forniscono il servizio di assistenza domiciliare. Secondo Rifondazione Comunista le persone con disabilità vogliono istituire un rapporto di lavoro precario con gli assistenti, vogliono essere “padroni”. Affermano che il denaro dato alle cooperative è “buono” mentre quello dato alle singole persone è “cattivo”. E alcune associazioni di disabili (sempre di meno, per la verità) sono d’accordo, preferiscono la pappa pronta anche se insipida o rancida e non vogliono o non sanno rischiare il binomio libertà-responsabilità.

Le persone con disabilità, oggi, nei sistemi assistenziali descritti, sono in realtà gli incolpevoli fornitori di ricchezza e potere a chi di loro si “occupa”. Sono un ulteriore frammento della galassia degli sfruttati, ed è necessario che in primo luogo si analizzi anche in questo settore l’ammontare e la distribuzione dei profitti di questo “regime”, e poi si produca una grande liberalizzazione con l’eliminazione di privilegi e del parassitismo.

Segnali positivi ci sono: sulla base della legge 162/98 sono state approvate delibere nella regione Piemonte, nel Veneto, in Friuli-Venezia Giulia, in Calabria, e Venezia è città molto attiva in questo campo. La Toscana ha da tempo vigente una legge regionale, prima ancora dell’approvazione della legge 162/98. Ci sono esperienze in corso in diverse città (Verona, Como, Torino, Roma, Siracusa, Bolzano, Cagliari, etc.). Dopo ENIL Italia sono nate diverse organizzazioni tematiche sulla vita indipendente che agiscono localmente: Idea, Avirb, Comitato lombardo per la Vita Indipendente, Consequor, Associazione Vita Indipendente della Toscana, La Formica. Inoltre organizzazioni più grandi, in primo luogo la UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), la Faip (Federazione delle Associazioni Italiane dei Para-tetraplegici), la Fish (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) hanno apprezzato queste idee facendole proprie. Gli esempi positivi sono la migliore dimostrazione della fattibilità e concretezza di questa proposta, e ormai di questi esempi, cioè di persone che stanno vivendo esperienza di vita indipendente sono parecchie anche se sono desolatamente poche rispetto a quanto è necessario.

 

Il lavoro

Quando si parla di lavoro e di indipendenza spesso si intende indipendenza economica, la forma consueta di crescita della persona che da giovane è mantenuta dai propri genitori e in seguito quando inizia a lavorare costruisce la sua vita anche grazie al reddito che il suo lavoro consente. Quindi alcune persone affermano semplicisticamente che anche per le persone con disabilità il lavoro porta all’indipendenza. A mio parere questa è solo una parte della verità. Il nostro Paese è fondato sul lavoro, è vero, è la prima norma della costituzione, ma non è il tutto, non tutto passa per di là.

In particolare per quel che concerne le persone con disabilità si può affermare con certezza che la vita indipendente non è un premio o il risultato che si conquista con il lavoro.

Vita indipendente è il prerequisito, è il presupposto indispensabile affinché molte persone con disabilità siano messe in condizione di vivere e di lavorare. Altrimenti solo chi è già attrezzato ce la farà, e sia la vita indipendente che il lavoro rischiano di essere roba da élite.

Inoltre quello che abbiamo verificato in questi anni di sperimentazione è che Vita Indipendente è un forte incentivo. Fa tornare la voglia di vivere al meglio, e, pelandroni congeniti a parte (che d’altra parte esistono pure fra chi non ha disabilità), fa venire voglia di fare cose, perfino di lavorare. E’ la più nitida ed efficace forma di empowerment.

Si diventa da subito imprenditori, fornitori di servizi alla persona, alla persona più importante, a se stessi. Non solo imprenditori, di più, si diventa datori di lavoro per i propri assistenti, cosa che richiede competenze, formazione, esperienza, crescita, che poi inevitabilmente avranno ricadute anche nell’attività lavorativa “vera”.

 

Gli ausili tecnici

Premesso che la tecnologia oggi offre soluzioni che solo fino a pochi anni fa erano impensabili, che le prospettive in questo settore sono affascinanti, e che riuscire a fare le cose da soli è un importante passaggio nella crescita della consapevolezza e dell’autostima, occorre fare attenzione quando si tenta di mettere in alternativa l’uso della tecnologia con le attività degli assistenti personali. L’alternativa ci può essere ma non è automatica e non è semplice valutare su quale piatto della bilancia stia il peso maggiore.

Nel testo della legge 162/98 c’è una precisazione a proposito della disabilità permanente quando in pratica si dice che si può ricorrere all’assistente personale per i problemi “non superabili mediante ausili tecnici”.

Occorre intendersi: “non superabili” può venire interpretato in molti modi e, nel fare talune scelte, è necessaria una grande ragionevolezza, (la ragionevolezza è per altro di per sé concetto non semplicissimo nel campo del diritto). Quand’è che una funzione diventa “superabile” mediante ausili tecnici? Quando ciò sia tecnicamente possibile, a prescindere dal tempo e dalle difficoltà pratiche, oppure quando l’ausilio renda possibile svolgere certe funzioni almeno nello stesso tempo e impiegando le stesse energie che dovrebbero venire spese se il lavoro venisse fatto con l’utilizzo di un assistente personale?

Ovviamente propendiamo per la seconda opzione, e dovremo essere molto attenti a che questa sia l’interpretazione accettata in sede di applicazione della norma. Qualora questa valutazione in sede tecnica non sia possibile, secondo me l’unico criterio realistico nella scelta fra l’uso di un ausilio e di un assistente personale per svolgere una particolare funzione sta nella scelta della persona con disabilità.

Ci sono persone che sono disposte ad utilizzare ausili anche se questo comporta maggiori difficoltà pratiche perché preferiscono fare da soli il maggior numero possibile di cose, e, al contrario, ci sono persone che vogliono ottimizzare al massimo il loro tempo e quindi hanno l’esigenza di ottenere l’aiuto di volta in volta più efficiente.

Un solo esempio, forse il più provocatorio, vista la visione “risolutiva e salvifica” che i non addetti ai lavori hanno dell’informatica nel contesto handicap: per una persona con grave disabilità scrivere una lettera al computer può essere un lavoro davvero lungo e faticoso, anche se oggi vi sono programmi e dispositivi che aiutano notevolmente in questa attività.

D’altra parte un assistente personale può scrivere “sotto dettatura” in modo quasi sempre più veloce e preciso. Allora la scelta del “concedere” l’uso di un assistente personale non deve essere legata solo al fatto che con un computer adattato sia possibile scrivere una lettera, ma anche a quali condizioni si costringa chi non vuole utilizzare tale ausilio, ma è costretto ad utilizzarlo perché non gli vengono offerte alternative.

 

Conclusioni

L’autonomia è la capacità di decidere, si affina esercitandola, si costruisce giorno per giorno. L’indipendenza, la vita indipendente, che vuol dire in primo luogo indipendenza dalla disabilità, è un termine tecnico, è uno strumento tecnico che consente di concretizzare le proprie scelte, che consente di crescere scegliendo per sé, anche sbagliando, poiché la crescita è anche e soprattutto la capacità di modificare il proprio comportamento per evitare di ripetere errori.

La vita indipendente come strumento tecnico si può riassumere nel poter scegliere DA CHI farsi aiutare, QUANDO farsi aiutare, COME farsi aiutare, DOVE farsi aiutare. Rinunciare anche ad uno solo di questi quattro principi vuol dire limitare la propria libertà, e cioè rinunciare a una parte o addirittura a tutta la propria vita, infatti vivere liberi è un diritto umano e civile fondamentale.

dicembre 2004 – John Fischetti