Politiche di welfare sociale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità”?

Nulla. A parte qualche affermazione di principio, tutto quanto previsto è la negazione della vita indipendente, cioè della possibilità di vivere in libertà e uguaglianza come tutti gli altri cittadini e, soprattutto, di autodeterminare la propria vita.
Ciò che balza immediatamente agli occhi di chi, da disabile, vorrebbe vivere una vita indipendente è quanto previsto all’articolo 5, ossia lo strumento denominato “progetto individuale, personalizzato e partecipato”. In base ad esso chi finalmente potrà accedere ai finanziamenti per vivere la vita a modo proprio dovrà presentare un progetto individuale (non collettivo), personalizzato (cioè basato sulle proprie necessità personali) e, qui casca l’asino, PARTECIPATO. Noi persone con disabilità saremo formalmente titolari del progetto, ma di fatto parteciperemo solo in parte e soprattutto mettendoci soldi nostri o dei nostri famigliari. Possono spiegarci questi consiglieri regionali lombardi, quelli che dovrebbero rappresentare la cittadinanza, chi è quel cittadino o quella cittadina che in nome della propria libertà d’azione desidera che qualcun altro partecipi, d’obbligo, al suo progetto di vita? Nel caso delle persone con disabilità questo significa che qualcuno, accreditato da altri, avrà voce in capitolo nella sua vita e potrà decidere come, quando, dove e con chi compiere qualunque tipo d’azione, dall’alzarsi dal letto al ritornarci, dal bere un bicchier d’acqua all’andare in bagno, dall’uscire di casa al rientrarci, dall’ospitare all’essere ospitati, cosa consumare eccetera. Certo è previsto, bontà loro, che la persona con disabilità partecipi (non disponga, non stabilisca, naturalmente) “attivamente alla definizione, determinandone i contenuti in base ai propri bisogni, interessi, richieste (si fa le richieste da sola), desideri e preferenze”, ma la regola è stabilita in forma generale lasciando gioco facile alla mentalità totalitaria, che fa paura a tutti, ma nessuno combatte.
È già sufficientemente discriminante che i disabili debbano presentare un progetto per poter svolgere le azioni di cui sopra. Vi risulta che altre categorie di cittadini debbano presentare un progetto per compierle? Forse solo i carcerati, ma almeno loro in bagno ci vanno quando vogliono, e il bicchiere d’acqua lo bevono quando hanno sete e non quando il genitore, l’operatore, l’altrui organizzazione oppure la struttura glielo consentono! E per essere prigionieri a vita dobbiamo anche pagare!
A proposito di strutture l’articolo 1 stabilisce che per permettere alle persone con disabilità di vivere nella società con la stessa libertà di scelta delle altre persone la regione promuove azioni quali “l’accesso ai servizi e agli interventi domiciliari, diurni e residenziali della rete sanitaria, sociosanitaria e sociale per un sostegno finalizzato alla vita indipendente, garantendo l’inclusione nel tessuto sociale ed evitando l’isolamento e la segregazione”. Secondo quali criteri? Quelli della struttura o quelli della persona interessata? Davvero questi consiglieri regionali sono convinti che il personale in dotazione alla struttura sia così capace e disponibile a modificare i propri orari e i propri comportamenti in funzione dei bisogni della persona interessata? Sapendo inoltre che devono darne conto ad altri? Sicuri che i dirigenti abbiano ben chiaro cosa significa vita indipendente per le persone con disabilità? Queste ultime la rivendicano, in Italia, da più di trent’anni, pur essendo supportati dal diritto della nostra costituzione e dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ma ne godono solo alcune fortunate.
Avevamo chiesto, presentando una proposta di legge alternativa, che venisse prevista la possibilità di presentare, autonomamente, progetti autogestiti dalla persona con disabilità interessata, progetti che prevedevano, sempre in autogestione, la figura chiave dell’assistente personale. Questa semplice modalità tecnica assicura la parità nel rapporto datore di lavoro/lavoratore e darebbe alla persona con disabilità potere contrattuale. La figura dell’assistente personale viene prevista in questa legge come uno strumento qualunque e, inoltre, il suo costo può essere solo rimborsato, non finanziato come avevamo richiesto. Questo significa che chi non ha i mezzi economici per investire in questa figura fondamentale non avrà mai la possibilità di cominciare il percorso di vita indipendente.
Nell’articolo 1 è previsto tra le azioni di promuovere “modalità di fruizione dei servizi e delle strutture destinate alla generalità dei cittadini, adattandoli ai loro bisogni (delle persone con disabilità)”. Come intendono fare non è scritto, eppure sarebbe utile visto che i vari assessorati hanno precisi obblighi che perlopiù non mantengono. Rimarrà sempre nel limbo delle buone intenzioni? Figuriamoci come riusciranno ad intervenire sulla dimensione lavorativa per la quale usano addirittura il verbo “garantire”!
Con l’articolo 6 viene attivata la valutazione multidimensionale, con la quale ogni soggetto interessato avrà voce in capitolo per attivare un progetto sulla persona con disabilità, compresa la scuola. Fosse almeno la scuola il luogo dove la persona viene formata e cresciuta per imparare a far valere i propri diritti e non marionette beneducate e ben istruite, ma incapaci di dire “non ci sto e scelgo di disobbedire”.
Al budget di progetto previsto dall’articolo 7, lo ribadiamo, parteciperemo soprattutto mettendoci soldi nostri o dei nostri famigliari. Ecco il significato più profondo di progetto partecipato!
Esso viene steso anche con il sostegno del Centro per la vita indipendente. Cosa si intende per anche? Che è necessario o che è possibile? Nel primo caso sarebbe un’intromissione tra le tante se la persona interessata non lo desidera. Si dice che il budget è parte integrante del progetto e deve tener “conto delle concrete necessità dell’interessato”. Cosa si intende per concrete?
Al budget di progetto concorrono gli interventi domiciliari di natura sanitaria, sociale ed educativa. E se io volessi intervenire sulla mia parte sanitaria come qualunque altro cittadino? E se io non desiderassi un intervento educativo dovrei anche pagarmelo? Perché non destinare quelle risorse ai progetti di vita indipendente, quelli veri, quelli voluti e gestiti dalle persone con disabilità interessate?
Concorrono anche le risorse della rete delle unità di offerta sociosanitarie, socioassistenziali e socio educative e degli interventi residenziali e semiresidenziali sperimentali degli enti locali. Siamo cavie? Siamo ancora a questo punto? Se proprio vogliamo sperimentare, visto che evidentemente il dubbio è ancora sulla capacità delle persone con disabilità di autogestirsi, perché non sperimentare progetti fatti e gestiti da persone con disabilità?!
Ci sono anche le risorse della regione e dei comuni per le tariffe delle unità di offerta residenziale che possono confluire nel budget di progetto qualora si preveda un percorso di uscita, ovviamente sempre nella logica della valutazione da parte di soggetti vari. Sarebbe un bene se il diritto alla vita indipendente fosse concepito come tale.
La giunta deve, sentite le associazioni maggiormente rappresentative delle persone con disabilità, dare attuazione alla presente legge entro 180 giorni, mancano ormai 5 mesi. Cosa ne pensano le associazioni maggiormente rappresentative? A proposito quali sono? Quelle dove la voce più ascoltata è quella dei tecnici, dei professoroni, dei genitori ma non quella dei diretti interessati?
Non si vuole con questo comunicato mortificare le ragioni di quei genitori di persone con disabilità intellettiva che necessitano di maggiori supporti e, appunto, di un’equipe multidimensionale, quanto mostrare che le misure qui previste penalizzano tutte le persone con disabilità, ma soprattutto quelle con disabilità fisica per le quali sono previste formule che le cancellano come se non esistessero, oltretutto scaricando su di loro e sulle loro famiglie i costi di progetti da loro non voluti.